“Perché non reagisco? Perché sarebbe come combattere contro i mulini a vento”. Parola di Roman Polanski. Il regista parla per la prima volta del suo film in gara alla Mostra di Venezia, J’accuse, che i produttori hanno minacciato di ritirare dal concorso dopo le critiche da parte della presidente di giuria Lucrecia Martel (“Non separo l’uomo dall’opera: non lo applaudirò”). Da anni ricercato dalla polizia statunitense e perseguitato dalle polemiche per la condanna per “rapporto sessuale con minorenne” del 1977, il regista si paragona al protagonista della storia, Alfred Dreyfus, il capitano dello stato maggiore francese ebreo condannato per alto tradimento, accusa poi rivelatasi falsa.
La rara intervista a Polanski è parte del materiale stampa del film e ne è venuto in possesso il sito americano Deadline, che ne riporta le frasi salienti. Intervistato dallo scrittore francese Pascal Bruckner, spiega perché ha deciso di raccontare il caso Dreyfus: “Da grandi storie spesso nascono grandi film. La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affascinante e attuale, visti i rigurgiti di antisemitismo. (…) Un caso simile potrebbe ripetersi. Ci sono tutte le circostanze: accuse false, superficialità giudiziarie, magistrati corrotti e soprattutto i social media che ti condannano senza un giusto processo né il diritto di appello”.
Bruckner poi chiede a Polanski se “da ebreo perseguitato in tempo di guerra e regista perseguitato in patria, sarà in grado di sopravvivere al maccartismo neo-femminista“. “Un film come questo mi aiuta molto”, risponde il regista, “ho ritrovato esperienze personali, la stessa determinazione a negare i fatti e a condannarmi per reati che non ho commesso. La maggior parte delle persone che mi molestano non mi conoscono e non sanno niente del caso”. E ricorda poi come gli attacchi siano iniziati nel 1969 con l’uccisione di sua moglie Sharon Tate: “Stavo già attraversando un periodo tremendo, la stampa si impadronì della tragedia e la gestì nel modo più deplorevole possibile, sottintendendo che ero uno dei responsabili del suo omicidio, in un contesto di satanismo. Per loro, il mio film Rosemary’s baby era la prova che fossi in combutta con il diavolo. Durò per mesi, finché la polizia non trovò i veri assassini, Charles Manson e la sua “family”. Tutto questo ancora mi perseguita. È come una valanga, si aggiunge sempre uno strato. Storie assurde di donne che non ho mai visto che mi accusano di cose che sarebbero accadute più di mezzo secolo fa”. “Non vuole reagire?”, chiede l’intervistatore. “A che serve? Sarebbe come combattere contro i mulini a vento”.