Sfilate, da Valentino a Louis Vuitton a Parigi dilaga il giovanilismo stravagante

oda e giovinezza sono compagne di lunga data, ma la relazione ha ultimamente raggiunto un equilibrio parodistico. Colpa della “mentalità millennial”, ultima ossessione di un tempo che annulla il tempo nell’eterno presente. Ventenni e quaranteni, teenager e adulti ormai uguali sono: pensano con lo smartphone, vivono in streaming continuo, si vestono come liceali – con tutto il ridicolo del caso. Sulle passerelle, a Parigi e prima a Milano, questo giovanilismo ostinato dilaga senza controllo, espandendo, stravolgendo o riequilibrando le identità dei marchi. Vale tutto, nel momento confuso.

Il debutto di Virgil Abloh da Louis Vuitton ha sostanza e presenza, ma non è la rivoluzione logomaniaca che si era prevista. Anzi, i punti di contatto con il recente passato – dal tailoring, invero notevole, all’attitudine sportiva – sono numerosi, sicchè l’effetto continuità è evidente. Per il resto, Abloh ha visioni affatto personali. È un comunicatore, non un designer, che promuove in primis se stesso e le proprie idee, ma che facendolo parla alle ultime generazioni, altrettanto ossessionate dall’io. Il suo Vuitton è stradaiolo quel tanto che basta, multietnico e inclusivo – la passerella arcobaleno e il messaggio “We are the world” sono rilevanti quanto altamente spendibili – pieno di accessori indossabili e borse tentanti come motivetti azzeccati (quelle di plastica iridescente hanno bestseller già scritto sopra). Cosa non si può non apprezzare, dal punto di vista del business? Di certo questa identità aggiornata avvicinerà una clientela più giovane. Manca forse l’eleganza, categoria oggi in generale declino, e lo shock del nuovo è relativo, ma l’impatto sui media è travolgente, e l’operazione di immagine impeccabile.

Uno stravagante giovanilismo arriva anche da Valentino, producendo sorpresa e questionando l’identità dell’uomo della maison, partito romano e sornione, diventato adesso un trapper con le sneaker e il cappello piumati, riempito di logo per ogni dove, anche sull’abito non più formale. L’abbassamento dell’età media di riferimento è evidente, e con questo la concessione che Pierpaolo Piccioli fa al gusto del momento senza rinunciare alla propria sigla distintiva: un equilibrio di opposti, nutrito di sapienza couture, teso all’armonia anche quando il codice scelto è la disarmonia. Certo, questo ragazzino così musicale e urbano par poco dialogare con il resto del mondo Valentino, ma l’abilità di Piccioli sta proprio nel creare un universo composito, usando couture, pret-a-porter, collezione uomo e donna per esprimere tratti diversi, se si vuole antitetici, della propria creatività. Multicanale: la chiave dei marchi, per comunicare, è questa. A Milano, Donatella Versace fa lo stesso, anche lei concedendo molto, forse troppo al gusto del momento.

Rick Owens, stoico e immaginifico, invece non cede. Anzi, pigia con forza l’accelatore sulla ruvidità brutalista di una estetica fuori dal tempo, ancestrale e insieme avveniristica, che nutre di riflessioni sulla condizione umana tradotte in abiti pieni di forza e di una scabra poesia. A questo giro, tra eruzioni sulfuree e parka-tenda complessi e scultorei come una torre di Tatlin, Owens propone una visione di resistenza e autonomia che è utopica quanto rinfrancante.

In fine, c’è chi il giovanilismo lo risolve in chiave sartoriale, deciso a uscire dalle pastoie del basico da strada. Raf Simons, ad esempio, che propone il tailoring da club in tessuti da couture, nostalgico di ribellioni adolescenziali viste attraverso il filtro della memoria. John Galliano, pure, magnifico e sperticato nel fondere lavoro d’atelier e lattice, preziosismo e sedizione, storia e undergroung da Maison Margiela. È il debutto dell’Artisanal da uomo: fantasia al potere come solo a Galliano riesce.

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