Perché negli Emirati Arabi Uniti la Escort, secondo le legge della sharia, è vietata e illegale
Perché negli Emirati Arabi Uniti la prostituzione, secondo le legge della sharia, è vietata e illegale: la pena è di minimo quattro anni di carcere per le donne e altrettanti per i clienti. Eppure Dubai, culla dell’islam moderato o, come la definiscono in molti, “parco dei divertimenti della penisola arabica”, è diventata una nuova rotta del traffico di donne. Arrivano dalle Filippine, dalla Cina, dall’India, ma la maggior parte delle ragazze, le più richieste, provengono dai Paesi dell’ex Unione sovietica. Il punto di partenza è l’aeroporto di Tashkent, Uzbekistan: qualche ora di volo e, sempre sorvegliate, atterranno a Dubai con un semplice visto turistico.
Quantificare il fenomeno è difficile in ogni parte del mondo, ma negli Emirati i dati ufficiali cercano di celare la gravità della situazione, mentre le Ong e le associazioni in difesa delle vittime sono ostacolate e hanno bisogno di una concessione governativa per operare e per raccogliere fondi. È certo, però, che il traffico di esseri umani ha raggiunto proporzioni gigantesche ovunque, Emirati compresi: secondo l’ultimo rapporto dell’Onu e dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (l’Oim) rappresenta il terzo mercato mondiale dopo il traffico di armi e di droga, con profitti che toccano ogni anno i 13 miliardi di dollari. La tratta a fini di sfruttamento della prostituzione incide per il 79% sull’intero fenomeno del traffico di esseri umani e coinvolge ragazze sempre più giovani. Negli Emirati non è diverso: ogni ragazza russa rende tra 60mila e 80mila dollari all’anno. I clienti sono principalmente arabi, che arrivano a Dubai da altri paesi della penisola arabica, ma non mancano europei e italiani, in cima alla classifica per il turismo sessuale (il dato arriva dal recente rapporto dell’Organizzazione mondiale del turismo).
Juergen Gasiecki, amministratore della chiesa ortodossa del Paese, insieme alla moglie Lena, di origine uzbeka, vive negli Emirati da dieci anni: ha cercato di aprire una Ong e un rifugio protetto per le vittime, ma il Governo non gliel’ha permesso. Così lavora nell’ombra, ma ha sotto gli occhi la tragica realtà della tratta delle ragazze russe. Solo nel primo mese del 2011 ha avuto 21 casi, mentre nel 2010 ha assistito 269 donne, contro le 129 del 2009: in un anno le vittime sono più che raddoppiate. Il 60% delle ragazze ha passaporto uzbeko, il 13% arriva dalla Moldavia, l’11% dalla Russia, il 5% dal Kirghizistan, e poi da Ucraina, Kazakistan, Armenia, Tagikistan, Bielorussia, Turkmenistan, Georgia, Azerbaigian.
Secondo i dati ufficiali, invece, la realtà è diversa: il rapporto annuale 2009-2010 del National Committee to Combat Human Trafficking parla di 86 vittime di violenze (di diverse nazionalità) e appena 43 casi di tratta, numeri che non comprendono nessuna delle ragazze russe aiutate da Juergen e Lena.Un altro dato fa chiarezza su come venga affrontata la tratta nel Paese: la maggior parte delle donne incontrate da Juergen, 236 casi, si trovavano in carcere con l’accusa di prostituzione. Dal 2006 esiste una legge contro il traffico degli esseri umani (la numero 51), ma è molto debole e, soprattutto, non fa cenno al supporto alle vittime. I trafficanti sono punibili da 5 anni alla pena di morte, ma da quando è entrata in vigore le condanne definitive si contano sulla punta delle dita: solamente sette. Al contrario, per una ragazza è quasi impossibile ricevere protezione dal Governo: se vanno alla polizia e denunciano la situazione, vengono arrestate come prostitute. Inizia così una lunga trafila, che richiede avvocati e contatti, e che nella migliore della ipotesi le porta in un rifugio protetto del Governo, più simile a un carcere che a una casa dove ricevere supporto.
«Il nostro lavoro – spiega Juergen – non consiste solo nel fare tornare le ragazze nei loro paesi d’origine, ma anche nel dare loro sostegno una volta a casa. Collaboriamo infatti con diverse Ong russe e con l’Oim uzbeko». Qualche anno fa le ragazze venivano reclutate nella grandi città, Tashkent, Samarcanda, Bukkara, ma oggi arrivano dai piccoli villaggi, dove non si sa ancora niente. «Vengono contattate da persone delle quali si fidano che promettono loro stipendi altissimi – prosegue Juergen -. Questa donne, che non hanno nulla, appena sopravvivono nei loro villaggi, sono vittime molto fragili. In Uzbekistan guadagnano 50 dollari al mese, quando i costi della vita oggi toccano anche i 100 dollari».
Ma come avviene il viaggio? Che rotte segue? Malika Matchanova lavora per l’Oim di Tashkent: «Le ragazze partono in genere dall’aeroporto di Tashkent – spiega -, anche se non sono tutte uzbeche. C’è infatti un accordo tra gli stati dell’ex Urss: i cittadini possono attraversarli senza bisogno di visto. Quasi sempre i trafficanti usano passaporti falsi e a tutte viene promesso uno stipendio di 1000-2000 dollari al mese. Se hanno contratto dei debiti, anche dopo averli ripagati, sono costrette a prostituirsi ancora oppure i trafficanti le vendono ad altre organizzazioni. E’ un circolo vizioso, senza una fine». Juergen e Lena, sia quando le ragazze si trovano in carcere sia quando fuggono e si rifugiano da loro, contattano subito l’Oim di Tashkent: «Lavoriamo in collaborazione con il ministero degli Esteri – prosegue Malika- e dopo avere verificato l’identità delle ragazze, mandiamo all’Ambasciata uzbeca negli Emirati il certificato di nascita, che prova la nazionalità delle ragazze: solo così possono avere un nuovo documento e tornare indietro. Una volta in Uzbekistan, le ospitiamo nel nostro rifugio protetto dove forniamo assistenza medica e sostegno psicologico. Qui le aiutiamo anche a progettare una nuova vita, a reinserirsi nei loro villaggi d’origine se lo vogliono, oppure a trovare un lavoro».
Dinara ha 24 anni, è nata a Tashkent in Kazakistan dove lavorava come cameriera prima che cominciasse l’incubo dal quale ancora cerca di liberarsi: «Un giorno ero al lavoro – racconta – e non ho più trovato il passaporto, mi è sparito. I miei datori, allora, mi dissero che mi avrebbero aiutata ad andare a Dubai: una città ricchissima, dove lavorando in un ristorante avrei guadagnato molto di più. Mi hanno detto che avrebbero pensato loro a tutto, anche a procurarmi un nuovo passaporto». Dinara si è presentata all’aeroporto di Tashkent, una mattina all’alba: le è stato dato un biglietto aereo di sola andata e un falso passaporto kazako. Così è partita, insieme al suo datore di lavoro, che l’ha accompagnata fino a Dubai. Una volta atterrata, è stata consegnata ad altri uomini. «Appena arrivata – prosegue – mi hanno portata in un appartamento dove vivevano molte altre ragazze. Qui eravamo controllate da un’altra donna. Nelya, questo il nome della mia sfruttatrice, si è avvicinata e mi ha detto subito: bene, da oggi dovrai lavorare come prostituta. Io le dissi che ci doveva essere un malinteso, che i miei datori di lavoro mi avevano assicurato un lavoro come cameriera. E lei mi svelò la verità: ero stata venduta proprio da loro, per 15.000 dollari».
Dinara non aveva scelta e ha cominciato a lavorare come prostituta. I clienti la sceglievano direttamente nella casa in cui viveva con le altre ragazze: «Se mi lamentavo venivo picchiata, regolarmente – racconta -, porto ancora le cicatrici delle botte sul mio corpo». A un certo punto si è resa conto che chi non si ribellava poteva stare fuori con i clienti anche una notte intera. Era quella l’unica possibilità per fuggire. Un giorno un cliente indiano l’ha richiesta e Dinara gli ha raccontato tutto: «Non avevo nulla da perdere – dice oggi -. Sono stata fortunata, ho incontrato un uomo molto buono: mi ha subito portata a casa di un suo amico e sono stata nascosta lì, per molti mesi. Poi con l’aiuto della Chiesa ortodossa di Abu Dhabi e dell’Oim in Uzbekistan sono riuscita ad avere il mio passaporto e tornare a casa».
La maggior parte delle ragazze, peró, non riesce a sottrarsi dalla schiavitù. Come Nargiza, appena 19 anni, anche lei uzbeka. Ha provato a chiedere aiuto a un cliente tedesco che per la sua libertà ha pagato perfino 5mila euro alla donna che la controllava, ma non è servito a nulla: Nargiza la sera è ancora lì, seduta al bancone nella discoteca di un noto hotel della città vecchia. E spesso ci sono anche bambini, nati negli Emirati, da violenze o da rapporti sessuali non protetti. Lo scorso anno Juergen e Lena ne hanno assistiti 13, insieme alle loro mamme. La gravidanza fuori dal matrimonio è illegale nel Paese, così come l’aborto. «Da me vengono in media due o tre donne al mese: mi dicono che sono incinte e non sanno che fare – spiega la dottoressa Shashikala, che si è trasferita a Dubai cinque anni fa dall’India e ha un piccolo studio medico a Karama, un quartiere popolare della città -. Il Governo non offre supporto di nessun genere e associazioni che si occupano di questi problemi non ce ne sono. Noi abbiamo una sorta di rifugio protetto privato, dove ospitiamo le donne e i bambini in difficoltà economiche, ma è solo una goccia nel mare. Garantisco loro il cibo e l’assistenza medica per tutta la gravidanza, altrimenti le aiuto a raccogliere i soldi per il biglietto aereo di ritorno».
Una forma di auto aiuto al femminile, che ancora una volta va avanti nell’ombra. E allora non rimangono che il caso, o la fortuna: incontrare un cliente sensibile, riuscire ad avere il numero di telefono di Juergen oppure capitare nello studi medico di Sashikala. Solo così c’è una possibilità: tornare a casa, cominciare una nuova vita e cercare di liberarsi del passato.