Più di due anni di lavoro con una commissione di consulenti chiamati a raccolta per l’occasione. Centoundici categorie selezionate, rappresentate da 350 oggetti recuperati in tutto il mondo, riprodotti o, in alcuni casi, inventati da zero. Ogni mostra ben fatta richiede un lavoro di ricerca lungo e scrupoloso, ma quando – come in questo caso – si tratta di condensare la moda dell’ultimo secolo in una sola esposizione, tracciandone per di più l’evoluzione in termini sociali, politici ed estetici, la fase preparatoria diventa vitale. Si spiegano così i lunghi incontri e i seminari voluti da Paola Antonelli, senior curator del dipartimento di design e architettura del MoMa di New York, per arrivare alla scelta finale.I risultati saranno visibili al pubblico dal prossimo primo ottobre sino al 28 gennaio 2018 con la mostra Items: is fashion modern?. Un argomento insolito per il museo di arte contemporanea: l’unico precedente, chiaramente richiamato nel titolo, è Are clothes modern?, mostra del 1944 curata da Bernard Rudofsky, architetto dalla visione pionieristica.
Quindi, l’interrogativo ce lo si pone da tempo: posto che l’abbigliamento – con tutti i suoi corollari, dagli accessori ai cosmetici – è per definizione specchio della società e dunque “moderno”, qui si mira a definirne il raggio d’azione, i cambiamenti che ha innescato nell’immaginario comune e i significati che ha assunto. Punto focale infatti non sono le creazioni più celebri dei sarti, proprio perché a essere preso a metro di giudizio è il pubblico nel suo senso più vasto: nulla è esposto per una semplice questione di prestigio o di nome, ma solo in virtù della sua funzione e della sua influenza.
Tanto per fare un esempio, le leggendarie giacche di Giorgio Armani ci sono, ma inserite nella sezione del workwear assieme a brand virtualmente sconosciuti, segno però del gusto del loro tempo. Di Coco Chanel è assente il giacchino di tweed, forse troppo irraggiungibile, ma sono presenti il suo fondamentale tubino nero, che nel 1926 ribalta il concetto d’eleganza femminile, sino ad allora tutta trine e pizzi, e il profumo n° 5, assurto a emblema assoluto di sensualità.
Si parla di liberazione del corpo con l’accostamento tra burkini (forse l’ultima, vera invenzione nel settore) e bikini, di ideali di bellezza più o meno realistici tra culotte contenitive di Spanx, reggiseni push-up, abiti premaman anni 50 e vestiti “a bozzi” di Comme des Garçons, di cultura hip-hop (le felpe col cappuccio e i grandi orecchini a cerchio), sino ai temi più delicati come gli indumenti “etnici” diventati d’uso comune nel quotidiano come kefiah e cheongsam.
Quello che più colpisce e che resta impresso della lunga selezione fatta, al di là della domanda di partenza, è la quantità di oggetti che rientrano a pieno diritto sotto la definizione di “moda”: moda sono una T-shirt bianca e lo smoking di Yves Saint Laurent, l’iniziatore delle mise da sera al maschile, i tatuaggi e le spillette con il fiocco rosso anti-Aids, i collant di nylon e pure il walkman, insospettabile antesignano di quella tecnologia indossabile cui tutti ora guardano. La moda è sempre stata moderna, anche senza che ce ne accorgessimo.