Lusso, la crescita arriva dalle partnership hi-tech
Non si può chiedere al consumatore cosa vuole e cercare di accontentarlo. Perché nel tempo che l’azienda impiega per fare questa operazione, il consumatore avrà già sviluppato un nuovo desiderio. Steve Jobs aveva espresso questo concetto (in un’intervista al magazine Usa Inc.) nel 1989, alla vigilia di un trentennio che avrebbe cambiato non solo il Dna delle aziende tecnologiche, ma la società nel suo complesso. Oggi le aziende del lusso si trovano a fare i conti con una situazione simile: per conquistare il cliente finale bisogna anticiparne i desideri.
L’identikit del consumatore
Un’operazione non semplice, ma che inevitabilmente deve partire da un’attenta osservazione ai trend di mercato. Che premiano il made in Italy, a patto che sappia essere comunicato nel modo giusto e con gli strumenti adatti: «Il made in Italy è prioritario per circa 17 milioni di top spender a livello mondiale – ha spiegato Nicola Pianon, senior partner e managing director di Boston Consulting Group, al Luxury Summit 2018 -, ma non è il marchio più apprezzato né dai cinesi che gli preferiscono il made in France, ma che entro il 2024 rappresenteranno il 40% del mercato del lusso mondiale né dagli americani, che invece prediligono il made in Usa». In questo caso, a fare la differenza, è la capacità di storytelling: «Le aziende del “fatto in Italia”, soprattutto quelle più piccole, devono imparare a comunicare a livello internazionale», ha continuato Pianon.
Il made in Italy, oltretutto, sembra essere un marchio più apprezzato tra i consumatori over 35, una fetta di mercato che si troverà presto “ridotta” sotto la spinta dei consumi dei Millennials e della Generazione Z: «I nati tra il 1980 e il 1999, i cosiddetti Millennials – ha detto in conclusione Pianon – oggi rappresentano il 30% del mercato circa, ma, entro il 2024, arriveranno ad acquistare il 50% dei beni di lusso in valore».
La sfida tecnologica
Tra le sfide che le aziende del made in Italy devono affrontare per spiccare nel contesto internazionale c’è, dunque, la costruzione di un canale di comunicazione con una platea di consumatori sempre più giovane, digitalizzata e internazionale. Per rendere efficace questo dialogo, complici le innovazioni tecnologiche che si diffondono a velocità supersonica (Facebook ha raggiunto il 25% dei cittadini americani in soli 4 anni, mentre la Tv ce ne aveva messi 26), l’investimento delle imprese della moda e del lusso nel tech è fondamentale. È questo il nocciolo del report presentato al Luxury Summit da Gyorgy Konda, partner di Roland Berger. «I giovani della Generazione Z passano il 35% del tempo dedicato ai media a consultare lo smartphone, contro il 27% speso davanti al piccolo schermo. E comunicano via chat e social network». Inevitabile, insomma, la creazione di piattaforme mobile friendly per comunicare al meglio con i consumatori del futuro. Il livello di attenzione del settore alle nuove tecnologie – che, di fatto, sul lungo periodo sono poco prevedibili, se non per nulla – deve essere sempre alto. I focus? «Il mondo dei big data, che permettono all’azienda di profilare il proprio cliente studiando la sua impronta digitale; l’intelligenza artificiale, che traccia dei maxi trend sulla base dei feedback dei consumatori, e poi le user experience ad alto tasso tecnologico» .
Gli strumenti per la crescita
La digitalizzazione e l’internazionalizzazione, dunque, sono (o dovrebbero essere) in cima alla lista delle priorità strategiche per le aziende del made in Italy. Non sono due percorsi facili da intraprendere e, soprattutto, richiedono importanti investimenti. Aperture a capitali privati, fusioni e quotazioni sono, da sempre, uno strumento utile alle piccole aziende che vogliono crescere (e, dall’altro lato, occasioni di investimento). Specialmente nel lusso.
Le aziende dell’altagamma, secondo Kpmg, continuano ad essere appetibili su scala internazionale: «Tra gennaio 2016 e marzo 2018 – ha detto Maurizio Castello, Kpmg advisory partner – si sono realizzate 652 operazioni nel settore fashion e lusso a livello mondiale. Nel 2017 e nel primo trimestre 2018, a fronte di 372 deal conclusi, quelli in Italia sono stati 68, pari a circa il 18% del totale. Dal 2016, invece, ne contiamo 104». Se a crescere sono principalmente le operazioni nei segmenti abbigliamento e accessori, a comprare sono soprattutto grandi gruppi (come Lvmh, Richemont). È in aumento la quota dei private equity, ma nel 2017 hanno registrato un incremento anche le quotazioni in borsa. Ma cosa è veramente cambiato rispetto al passato? «I multipli sono sempre elevati – ha spiegato Castello – ma non torneranno ai livelli del 2011-2012». A trasformarsi sono anche le motivazioni di queste operazioni: nei prossimi anni, secondo il sondaggio condotto da Kpmg condotto su un campione di 150 executive nel settore moda-lusso, le operazioni di M&A rallenteranno per lasciare il passo a joint venture, acquisizioni e partnership per spingere l’espansione geografica (52%), per incrementare il livello di prodotti e servizi (13%) e per ridurre il “time to market” (11%).