Sono tre anni che i principali gruppi italiani del lusso, nel loro complesso, non crescono in termini di fatturato e perdono redditività. Mentre, oltre i confini nazionali, i conglomerati e i big brand che “valgono” tre volte tanto viaggiano a velocità sostenuta su entrambi i fronti. La ragione? Le dimensioni limitate: essere una billion company, un tempo considerato un traguardo importante per le aziende italiane, spesso di stampo familiare, in alcuni casi addirittura “one man company”, non è più sufficiente. Per affrontare un mondo globalizzato e digitalizzato serve più forza.
A dipingere questo scenario è un confronto tra i principali gruppi del lusso italiani ed esteri realizzato da Pambianco Strategie d’impresa che da una parte mette 15 aziende del lusso made in Italy la cui proprietà o il cui azionista di maggioranza è italiano (Luxottica, Prada, Armani, Max Mara, Otb, Moncler, Ferragamo, Dolce&Gabbana, Zegna, Safilo, Tod’s, Cucinelli, Furla) o nel caso di Valentino, straniera ma indipendente dai conglomerati, e dall’altra sei tra gruppi e aziende di proprietà internazionale (Lvmh, Richemont, la divisione lusso di Kering, Hermès, Tiffany, Burberry).