La storia di Ahmad, condannato ad essere gay in uno stato con ancora troppe restrizioni

Ahmad Abu Marakhia – Facebook

 

Ahmad Abu Marakhia è stato ucciso e decapitato nelle strade di Hebron perché gay. Il ritrovamento del suo corpo orrendamente mutilato ha suscitato profondo sgomento sui social network e tra le associazioni che si occupano di tutelare i diritti della comunità LGBTQI+. Sull’omicidio indaga la polizia palestinese, e anche se la famiglia nega che il movente della barbara uccisione possa essere stata la sua omosessualità, chi conosceva bene il ragazzo ha affermato che, proprio per il suo essere gay, aveva ricevuto anche minacce di morte. Abu Marakhia è, infatti, uno dei tanti omosessuali palestinesi la cui vita è messa in costante pericolo per via del proprio orientamento sessuale. Per tale motivo il ragazzo, supportato dall’associazione ‘Al-Bait-al-Mokhtalef’, ossia Una casa diversa, aveva lasciato la Cisgiordania e si era trasferito, da due anni, a Tel Aviv dove era in attesa dei documenti necessari per richiedere asilo di Canada. Secondo quanto affermato dagli amici del ragazzo, Abu Marakhia era ancora a Tel Aviv mercoledì 28 settembre, perciò è verosimile che il giovane sia stato rapito una volta arrivato ad Hebron, città dove risiede ancora la sua famiglia. L’ambasciatore statunitense in Israele, Thomas Nides, ha condannato l’omicidio dicendosi “scioccato e inorridito dall’omicidio e dalla decapitazione di Ahmad a Hebron. La violenza contro gli esseri umani LGBTQI+ è inaccettabile”, mentre la parlamentare laburista araba Ibtisam Mara’ana, che si è molto spesa per l’apertura di ostelli protettivi in Israele, si è detta profondamente addolorata per la morte del giovane. Natali Farah, attivista per i diritti delle persone omosessuali, ha riferito al quotidiano israeliano Haaretz che il ragazzo era ben noto e apprezzato all’interno della comunità LGBTQI+ essendo “molto intelligente e silenzioso. Molte persone lo conoscevano. L’intera comunità sta piangendo adesso. Tutti hanno paura”.

 

KeystoneAhmad Abu Marakhia

 

La paura di essere gay – E i motivi per aver paura sono tanti se si è omosessuali e si vive in Palestina, paese che secondo la rivista Forbes è uno dei peggiori al mondo per coloro che fanno parte della comunità LGBTQI+, e dove l’essere gay è un reato punito con una pena di reclusione fino a dieci anni di carcere, se non con la morte. Di fatto, da quando l’autorità palestinese ha assunto il controllo dei suoi territori, non è stato legiferato né in senso favorevole né in senso contrario alla libera espressione del proprio orientamento sessuale.

Una legge criminale – In questo vuoto normativo, che rende ancora più pericolosa la situazione delle persone omosessuali palestinesi, sopravvivono, come nella striscia di Gaza, delle vecchie leggi, quali l’ordinanza del codice civile inglese n.74 del 1936, che considerano fuori legge e criminali i rapporti omosessuali tra uomini adulti anche se consenzienti. La situazione delle donne lesbiche, invece, non viene neanche presa in considerazione per cui, anche se formalmente non sono punibili, di fatto rimangono condannabili. Pur in mancanza di una legge certa, la polizia palestinese è comunque in grado d’incriminare le persone omosessuali per altri reati, come prostituzione, droga o collaborazionismo con lo Stato d’Israele e di chiuderle in prigione.

La salvezza si chiama Israele – Ma è proprio in Israele, in casa del ‘nemico’, che gli omosessuali palestinesi trovano rifugio. Nel 2020, erano già 150 le persone provenienti dalla Palestina che avevano trovato rifugio oltreconfine. Molti di loro sono arrivati grazie a dei permessi temporanei o, semplicemente, percorrendo delle lunghe tratte a piedi. Nei pressi di Jenin, infatti, la barriera che segna il confine tra territori palestinesi e Israele, presenta dei varchi ed è attraversata anche da molti lavoratori palestinesi.

 

ImagoManifestazione contro l’omofobia a Gerusalemme

 

Le associazioni – In Israele, queste persone sono accolte e aiutate da diverse associazioni, quali l’Agudà, che racchiude tutte le organizzazioni LGBTQI+, Hias, storica associazione ebraica per l’assistenza dei rifugiati, e Una casa diversa, prima citata, istituita nel 2019 a causa della forte discriminazione a cui è sottoposta la comunità gay araba. Secondo quanto è possibile leggere nel loro sito “l’organizzazione lavorerà su due livelli: in primo luogo, l’organizzazione agirà per l’empowerment dei membri della comunità LGBTQI+ araba, aiutandoli a realizzare i loro pieni diritti in diversi campi. In secondo luogo, l’organizzazione promuoverà l’accettazione delle persone LGBTQI+ araba e combatterà l’omofobia, sia all’interno della comunità araba che della popolazione in generale”.

Il paradosso: ospitati dai nemici – Nel 2019, invece, l’autorità palestinese aveva messo al bando l’associazione palestinese Al-Qaws, fondata nel 2007, per promuovere “un cambiamento sociale e promuovere nuove idee sul ruolo di genere e diversità sessuale nell’attivismo politico, istituzioni della società civile, media e vita quotidiana”. Il divieto venne poi, fortunatamente, revocato a seguito della forte condanna da parte delle associazioni per i diritti umani. Le persone omosessuali arabe che riescono a fuggire dai territori palestinesi, vivono il paradosso di trovare un rifugio sicuro proprio nello Stato che, da decenni, dovrebbe rappresentare per loro il male assoluto. In tema di diritti della comunità LGBTQI+, Israele è il paese mediorientale più progressista, con leggi che tutelano la libera espressione della propria sessualità.

L’apertura d’Israele – Fin dal 1988, l’assemblea legislativa nazionale, il Knesset, ha formalmente abrogato l’originaria disposizione che vietava i rapporti sessuali consensuali tra le persone dello stesso sesso, fissando l’età del consenso a 16 anni. Riconosce, inoltre, i matrimoni omosessuali contratti all’estero, il diritto di adozione e, dal 1993, le persone omosessuali possono prestare servizio militare senza dover celare il proprio orientamento sessuale.

La chiusura del mondo arabo – Se Israele, rappresenta, quindi, un esempio virtuoso nella tutela dei diritti LGBTQI+, lo stesso non può dirsi per i restanti Paesi del Medio Oriente e del nord Africa. Basti pensare alla campagna, chiamata ‘Fetrah’, istinto umano, promossa quest’anno dall’Egitto e diventata presto virale sui social network di molti Paesi arabi e nordafricani. In tale campagna, ideata da tre esperti di marketing, si rifiuta l’identità di genere non binaria e si condannano gli orientamenti sessuali diversi dall’eterosessualità. L’idea di fondo è quella che esistano solo due generi, quello maschile e quello femminile, e l’omosessualità sia, di conseguenza, un comportamento deviato rispetto alla natura umana. Questo pensiero omofobo, si concretizza nel fatto che, ancora oggi, appartenere alla comunità LGBTQI+ in molti Paesi dell’Africa, Asia e Medio Oriente può significare doversi nascondere per paura di ritorsioni, venire arrestati e, di frequente, anche perdere la propria vita.

 

IMAGO

 

Gay a morte – L’omosessualità è punita con la morte in Paesi quali la Mauritania, la Nigeria, il Sudan e la Somalia, oltre che in Pakistan, Afghanistan, Emirati Arabi Uniti, Iran e Yemen. Nel 2020, il rapporto di Ilga World, International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association, denunciava che vi fossero ben 69 Stati membri delle Nazioni Unite che continuano a criminalizzare gli atti sessuali omosessuali consensuali tra adulti. Stilare una classifica e rinvenire dati certi è molto difficile perché, come detto, molto spesso le condanne a morte vengono inflitte sulla base d’incriminazioni che esulano dall’accusa di omosessualità anche se, di fatto, sono solo un modo per mascherare la vera motivazione dell’esecuzione.

 

Una devianza sessuale da criminalizzare – Nei Paesi dove vige la legge islamica, è bandita qualsiasi pratica sessuale che avvenga al di fuori del matrimonio, motivo per cui l’omosessualità è condannata come contraria alla legge della Sharia. Le leggi varate per condannare le pratiche omosessuali sono usate dalle autorità pubbliche, nella maggior parte dei casi, come strumenti di ‘moralità’, motivo per cui si criminalizzano e arrestano coloro che sono accusati di promuovere quella che viene intesa come una devianza sessuale. In Kuwait, così come negli Emirati Arabi Uniti, viene condannata anche la non conformità di genere e in Oman è stata, di recente, introdotta una clausola nel codice penale che punisce le persone di genere maschile che si vestono con abiti femminili. Le persone transgender sono comunemente confuse con le persone omosessuali e accomunate nella punizione di ciò che viene definito come un crimine. Se anche, in questi anni, si è assistito a delle piccole aperture da parte del mondo arabo, ancora molto rimane da fare per una reale tutela dei diritti LGBTQI+.

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