on accadeva da 44 anni: nel 2018 i profitti di H&M potrebbero calare di una percentuale “high single digit”. Le stime sono degli analisti, il profit warning, espressione americana che traduciamo, con una sfumatura di imprecisione, allarme utili, non è stato lanciato dai vertici aziendali, che hanno però avvertito gli investitori, in occasione dell’ultima trimestrale, che l’esercizio si preannuncia difficile.
Come è possibile? H&M non è una start up, ha fatto la storia dell’abbigliamento europeo, possiamo dire senza timore di enfasi: è nata in Svezia nel 1947. È una delle più grandi catene a livello globale e soprattutto ha creato un modello di business con il quale solo gli spagnoli di Inditex possono rivaleggiare, il cosiddetto fast fashion. Moda veloce perché viene prodotta in fretta, sull’onda dei trend del momento. Altrettanto velocemente arriva nei negozi e ne esce, grazie a prezzi molto bassi legati, semplificando, alle economie di scala.
ronia della sorte, la definizione fast fashion, che non risulta dispiaccia agli spagnoli, agli svedesi non è mai piaciuta. Hanno sempre sostenuto di essere veloci non perché copiino stile e creatività da altri (accusa mossa ripetutamente a marchi del gruppo Inditex come Zara). Non perché “spiino” le sfilate dei grandi marchi e mettano subito in produzione i look migliori, mentre le maison tradizionali hanno bisogno di mesi per il passaggio passerella-negozi. Sono veloci in altri modi: a rinnovare gli stock dei negozi, a cogliere gli umori dei consumatori, a offrire loro prodotti diversi ogni settimana.
Qualcosa però sembra essersi inceppato: fattori meteo a parte, i magazzini di H&M sono pieni. Per svuotarli sono stati praticati prezzi ancora più bassi del solito. Quello che nei supermercati si chiama sottocosto. Forse non basterà neppure questo: è l’idea di comprare “solo” perché costa poco a essere in crisi. Aggiunta a una maggior consapevolezza su come si arriva ad avere prezzi tanto bassi, possibili – dicono i detrattori e ovviamente non vale solo per H&M – grazie a una certa disinvoltura nelle politiche salariali e ambientali. Questo era forse vero fino a qualche anno fa, da almeno cinque non lo è più. La tragedia di Rana Plaza, in Bangladesh, dove 5 anni fa morirono 1.135 persone nel crollo di una fabbrica di vestiti, ha portato l’intera industria della moda a certificare la sostenibilità sociale. Sul fronte ambientale, H&M, in piena tradizione nordeuropea, è sempre stata all’avanguardia, quasi impeccabile. E negli ultimi anni si sono moltiplicate le collezioni di cotone organico, certificato fair trade, e le iniziative di economia circolare. Si porta in negozio l’usato, si ottiene un buono e la promessa che ciò che scartiamo venga riciclato. Non basta ancora: l’idea di una moda usa e getta forse non è più in sintonia con i tempi. Non c’entra la crisi economica: i Millennials e la generazione X preferiscono dividere i loro budget – piccoli o grandi che siano – tra oggetti di consumo ed esperienze. E chi, in genere di età diversa, si era appassionato al mix & match – l’abitudine a mischiare capi a basso costo ad abiti o accessori di lusso – sembra essere meno entusiasta.
Si potrebbe pensare che sia la rivincita dei beni di alta gamma, per definizione fuori dal tempo e destinati a durare. È così, ma solo in parte. Se è vero che le maison di maggior successo, guardando a recenti bilanci 2017 e alle trimestrali relative al periodo gennaio-marzo 2018 sembrano godere di ottima salute, è altrettanto significativo lo sviluppo di siti come Vestiaire Collective o Tradesy, che rivendono abbigliamento, accessori, persino gioielli e orologi di alta gamma. Chi li aveva comprati quasi certamente ne comprerà altri. Ma il fenomeno indica un desiderio di non sprecare, di non buttare, di sostituire in modo sempre più creativo, costruttivo.
Un fenomeno che interessa tutti i consumi: si pensi al proliferare di negozi, online e offline, che riparano oggetti e alla rivolta contro la cosiddetta “obsolescenza programmata” di smartphone e piccoli e grandi elettrodomestici. La moda ha un vantaggio: nasce da un atto creativo e fa leva sul desiderio di vestirsi per sentirsi bene. Quando ha successo è perché ha toccato le corde giuste del desiderio, dei sogni. Non è mai solo questione di marketing. H&M, paradossalmente, lo aveva capito tantissimi anni fa, con le collaborazioni per edizioni limitate e low cost con nomi altrimenti inaccessibili, come Karl Lagerfeld o Versace. Non solo: la catena svedese – a differenza di Inditex – ha anche compreso la potenzialità del legame con musicisti che ambiscono a diventare stilisti. Tra le linee co-firmate da H&M ci fu quella con Madonna, nel 2007, anni prima che Rihanna, le sorelle Kardashian e moltissime altre celeb e influencer più o meno di talento si dilettassero con la moda.
Nelle ultime stagioni le code più lunghe, a volte persino notturne, davanti ai negozi si sono viste per le edizioni limitate e i pop up store del lusso. Una volta accadeva davanti ai punti vendita H&M. Come dire che il lusso ha imparato molto dal fast fashion. Ora forse dovrà accadere il contrario. La strada scelta da Inditex è avere un portafoglio di marchi molto esteso (Zara, Oysho, Bershka, Pull&Bear, solo per citare i principali). Quello di H&M è più limitato, ma sta crescendo e Cos in giugno sarà ospite speciale di Pitti Uomo, non esattamente una vetrina della moda low cost. Una cosa è certa: in questo mondo accelerato nessun modello di business, per quanto di rottura e di successo, dura per sempre. Cambiano velocemente le esigenze dei consumatori e i canali distributivi (si vedano anche gli articoli a pagina 18), rivoluzionati dall’e-commerce e dal marketing digitale. Ma vale sempre l’assunto di Joseph Schumpeter, anche se l’economista non pensava, forse, al tessile abbigliamento quando scrisse i suoi saggi: la moda più che mai vive di distruzione creativa. Finché saremo fatti di atomi e molecole e finché ci piacerà guardarci allo specchio e usare la moda per trovare il nostro piccolo o grande posto nel mondo, i modelli di business e distribuzione cambieranno, ma continueremo a comprare. Lunga vita allo shopping, direbbe Sophie Kinsella.