Il lusso mediterraneo e anti-standard di Mytha Hotel Anthology punta sull’Italia
Quali sono?
Il Capri Palace, l’Aldrovandi di Roma, Argos in Cappadocia, Villa Dubrovnik in Croazia, Villa Magna a Madrid, Il Riccio Beach House a Bodrum, D Maris Bay in Dacia. Filo conduttore è il Mediterraneo, inteso come civiltà.
A che scopo è nata Mytha Hotel Anthology?
Al momento per sviluppare sul mercato internazionale gli alberghi di lusso di Doğuş. I primi due anni abbiamo lavorato per creare il brand dal punto di vista dell’immagine e organizzativo. E da gennaio 2017 è operativo un team di sales, marketing, comunicazione e management che ci consente di gestire i nostri alberghi e di aprire a terzi.
Quindi, contate diventare più numerosi?
Potenzialmente tanti hotel potrebbero entrare in Mytha, strutture che seppure molto belle non potranno mai diventare Four Seasons, perché non hanno camere da 45 mq, il minimo per gli standard della compagnia.
In sintesi quali hotel sono candidabili per affiliarsi al vostro brand?
Piccole strutture, non appetibili per i grandi gruppi; “pezzi unici” non standardizzabili, ai quali manca un management che gestisca la struttura in modo professionale. In molti casi, l’ideale sarebbe affiancare la proprietà nei processi gestionali.
Che interesse avrebbe un albergo che fa già parte, per esempio, di Leading Hotels of the World e Virtuoso, a entrare in Mytha?
I piccoli hotel indipendenti hanno bisogno di rinnovarsi sempre. Grazie a una gestione condivisa riducono le spese di sales, marketing e comunicazione, liberando risorse per altro. Nasce tutto da un mio vecchio progetto.
Quale?
Prevedeva una società di management tra una decina di hotel, in cui ciascuno cedeva il 10% del proprio asset, diventando per la stessa quota proprietario degli altri 9 alberghi, e diversificando così il patrimonio. La novità era proprio questo modello finanziario. I dieci imprenditori che avevo coinvolto sembravano interessati, ma quando era ora di passare alla pratica prevalevano i dubbi.
Qual è il deterrente ?
C’è una certa resistenza culturale, che però sta cambiando. Le famiglie proprietarie sono più dinamiche e aperte. Tant’è che ora ci contattano loro per informarsi.
Perché Dogus ha scelto l’Italia e Roma come base per questo progetto?
Perché è nato qui. Volevamo creare un brand di lusso in un Paese che ne avesse la vocazione, e l’Italia ce l’ha. Inoltre Italia e Roma sono due luoghi mitici del turismo.
Lusso è una parola molto abusata. Cos’è secondo lei un hotel di lusso?
Un hotel è di lusso se design e layout non sono schematici. Invece spesso finiscono per essere “non luoghi”, per adeguarsi agli standard del gruppo di appartenenza. Andava bene cinquant’anni fa, quando i pochi che viaggiavano lo facevano due, tre volte in una vita, ed erano contenti di trovare posti simili a New York come a Parigi. I grandi viaggiatori di oggi invece non si emozionano più a vedere ovunque gli stessi tavoli, le stesse sedie, le stesse lampade.
Secondo lei perché c’è tanta uniformità?
Perché gli architetti sono sempre gli stessi cinque o sei.
Chi avete scelto per l’Aldrovandi?
Jacques Garcià.
Ha detto un nome che però fa parte dei soliti noti…
Sì, ma noi vogliamo il Garcià delle case private, sul modello della sua villa a Noto, in Sicilia. Il nuovo Aldrovandi sarà ovviamente un albergo, ma con tutte le caratteristiche di un’abitazione. Non ho intenzione di creare una casa per il mio cliente, né è ciò a cui il cliente aspira. Dovrà essere un luogo d’ispirazione: l’originalità di uno spazio stimola le emozioni, la creatività, la curiosità.
Quindi è questo il lusso?
Lussuoso significa capace di arricchire. Per esempio un ambiente in cui imparo qualcosa quando ceno, quando dialogo, quando uso uno spazio.
Qual è secondo lei uno dei difetti dell’alta ospitalità?
Puntare sulla fidelizzazione, è un equivoco tremendo.
Ma se ne vanno tutti orgogliosi.
Dal punto di vista commerciale significa ridurre il bacino di utenza. Più sono i repeat guest meno sono i nuovi ospiti. Se ne mancano 5 o dieci, rimpiazzarli è più complicato. Ma c’è anche un aspetto legato all’atmosfera: se un hotel ha sempre gli stessi ospiti, finisce che si sentono a casa e condizionano una serie di scelte. Appena si cambia qualcosa, anche solo i bicchieri e le posate, rimpiangono il prima. Questo approccio impone lo status quo e rallenta lo sviluppo. Infine, c’è anche una questione di story telling: dopo tre quattro anni nello stesso posto, non c’è più molto da raccontare, e con i repeat guest la capacità narrativa dell’hotel finirebbe per esaurirsi. Invece è fondamentale.
In quest’ottica, cosa avrà di speciale l’Aldrovandi?
Sarà il più bell’albergo di Roma. Creeremo un urban resort con una piscina fuori e una dentro, la spa, il ristorante gastronomico, il bistrò, spazi per i party e un piccolo club. Un’oasi a pochi passi da via Condotti.
Ci verranno anche ai romani?
Certamente. Per uno straniero è una bellissima esperienza, se è frequentato dalla gente giusta.
Chiudete a fine 2018, quando prevedete di riaprire?
Dopo 18 mesi. Arrivederci dunque a metà 2020.