Difendere la web reputation: a regnare una legge occhi per occhio…
Proliferano siti e banche dati con ogni sorta di informazioni commerciali e reputazionali. Si tratta di un mercato dalle potenzialità immense, che travalica le possibilità regolatorie di un singolo Stato. E così tutelarsi contro le informazioni false è quasi impossibile
«Ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per perderla. Se lo tieni a mente agirai in maniera diversa», Warren Buffett.
La tutela del buon nome, dell’onore, della reputazione non è certamente un’invenzione del XXI secolo. Ma con l’esplosione dell’universo digitale sta assumendo un’importanza sempre maggiore. Ormai non c’è attività economica che non sia soggetta a un’infinità di rating reputazionali che, in definitiva, decideranno del suo successo o del suo fallimento. Alcune di queste valutazioni sono effettuate da autorità riconosciute, con criteri abbastanza rigorosi, altre invece sono lasciate alla libera iniziativa degli utenti dell’impresa stessa o di coloro che hanno avuto rapporti con essa o di società che raccolgono e vendono informazioni sul conto di terzi. Rating del primo tipo sono, per esempio, quelli della centrale rischi della Banca d’Italia o delle Sic (Sistemi di informazione creditizia) che, sulla base di un codice di condotta approvato dal Garante della privacy, raccolgono e rendono disponibili dati sul comportamento del soggetto nei confronti dei suoi creditori: informazioni spesso fondamentali nei rapporti commerciali e soprattutto nell’aprire o chiudere le porte dell’accesso al credito.
Diametralmente diversi sono invece i sistemi fondati sulle valutazioni liberamente rilasciate dai clienti, come Tripadvisor o Aliexpress, le quali, pur avendo un tasso di affidabilità decisamente inferiore e nessuna disciplina che garantisca la correttezza dei giudizi, sono tuttavia importantissimi nel facilitare o meno l’acquisizione di nuova clientela da parte dell’esercizio commerciale. Tra i due estremi vi sono poi una moltitudine di sistemi informativi più o meno organizzati, più o meno strutturati, più o meno regolamentati, che contribuiscono, in ultima analisi, a definire la brand identity o la reputazione dell’azienda e finanche della persona fisica.
Il punto è: come ci si può difendere di fronte al danno che può essere causato da un rating negativo o dalla presenza in rete di informazioni fuorvianti o del tutto erronee? La prima risposta è che ci si può rivolgere al Garante della privacy per chiedere la rettifica dei dati inesatti o l’integrazione di quelli incompleti presenti in rete, o per far valere il diritto di oblio. Oppure ci si può rivolgere al sistema giudiziario (in pratica, a un tribunale) per chiedere il risarcimento dei danni causato dalla diffusione delle informazioni inesatte o fuorvianti. Ma spesso si tratta di possibilità di tutela meramente teoriche. Primo perché colui che ha messo in rete i dati potrebbe non essere rintracciabile: può essere un utente che si nasconde dietro un nickname oppure un servizio di informazioni commerciali con un server posizionato nelle Antille, per esempio. E poi perché anche il Garante e la giurisprudenza possono entrare in contrasto. Emblematico il caso di Mevaluate Onlus, un’associazione privata coaudivata da partner tra cui Ibm, PwC Advisory, Rina Services, che aveva cercato di mettere online un algoritmo in grado di calcolare il rating reputazionale di aziende, enti e persone fisiche: una decisione del 2016 del Garante della privacy ha bocciato il progetto, che avrebbe violato le norme del Codice sulla protezione dei dati personali e inciso negativamente sulla dignità delle persone. Con sentenza del 16 marzo 2018, il Tribunale civile di Roma lo ha invece promosso perché «non solo è un servizio innovativo che contribuisce a rendere maggiormente efficienti, trasparenti e sicuri i rapporti socioeconomici, ma lo fa con modalità che non ledono la privacy, la libertà e la dignità delle persone».
È solo un esempio del Far West che regna nell’ambito della web reputation, dove ormai sono centinaia le organizzazioni che operano nel campo della raccolta, schedatura e diffusione delle informazioni commerciali e non solo. Si tratta di un mercato dalle potenzialità immense, che travalica le possibilità regolatorie di un singolo Stato: e d’altra parte non ci sono organismi internazionali in grado di disciplinare il settore. La conseguenza è che può essere molto difficile, se non impossibile, difendersi contro le fake news messe in circolazione in modo inconsapevole o in modo volontario (magari da un concorrente malevolo), e che nell’era dei social network e dell’identità digitale, la tutela della propria reputazione, onorabilità, immagine, può rivelarsi impresa assai ardua.
fonte:https://www.italiaoggi.it/news/difendere-la-web-reputation-a-regnare-e-il-far-west-2394104