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uomo ha evaso le tasse nel 1982-1983 con la propria azienda e questa storia ritorna a galla sul Web perseguitando il figlio, il nuovo amministratore delegato. Una guardia forestale denunciata anni fa per bracconaggio – ma non condannata – ora non riesce più a trovare lavoro. Colpa di quella notizia che appare ogni volta che si cerca il suo nome su Internet. Stessa sorte per un giovane avvocato: quando era minorenne è stato condannato per un reato in famiglia, ma lui è riuscito a cambiare strada: si è messo a studiare, si è laureato in giurisprudenza. È una persona diversa. Ma per il Web è ancora, soltanto, quel ragazzino pregiudicato.
Tantissimi, in Italia, si trovano nella stessa situazione, come emerge dalle storie raccolte da “l’Espresso” e che a pioggia arrivano sulla scrivania di avvocati specializzati in questioni Internet. Ma chi vuole cancellare il proprio passato dal Web adesso può riuscirci, chiedendo di essere esaudito da Google. La multinazionale americana, dopo aver ricevuto la domanda, stabilirà se potremo trovare una certa pagina Internet sul suo motore di ricerca.
È il risultato di una recente sentenza della Corte di Giustizia europea, che ha affermato il “diritto all’oblio” per i cittadini Ue. Cioè che Google deve togliere dalla propria ricerca certe pagine, su richiesta degli interessati, nei casi in cui il loro diritto alla privacy prevale sull’interesse pubblico a conoscere quei fatti.
Ma chi decide nel merito, caso per caso? Google, appunto: in totale autonomia. È uno degli effetti della sentenza. Nel momento in cui la Corte ha imposto un nuovo onere a Google, gli ha anche attribuito il potere straordinario di decidere la visibilità effettiva di un’informazione su Internet. Ciò che non si trova su Google diventa quasi invisibile: è destinato all’oblio, appunto. Equivale a mettere alcuni libri in una stanza buia di una biblioteca. Solo chi sa cosa cercare ed è molto motivato può ancora trovarli. Per gli altri, cioè la stragrande maggioranza, è come se quei libri non esistessero.
E saranno numerose le parti del Web che piomberanno nel buio, nei prossimi mesi. Google ha già ricevuto infatti 50 mila richieste di oblio, in un mese, tramite un modulo che ha pubblicato on line. «La maggior parte riguarda articoli di giornali. La questione del diritto all’oblio è esplosa di recente perché tutte le testate, anche quelle locali, hanno messo on line i propri archivi. Fatti di decenni fa tornano alla luce sulla Rete come se fossero recenti», dice Carlo Blengino, avvocato esperto del tema e fellow del Centro Nexa-Politecnico di Torino. «Fenomeno destinato ad aumentare, man mano che invecchieranno anche gli articoli scritti per il Web negli anni scorsi».
Ogni avvocato sta ricevendo richieste di questo tipo. Le storie seguono spesso lo stesso schema: qualcuno si ritrova sul giornale per un vecchio fatto; chiede al giornale o al blog di rimuovere l’articolo; spesso non riceve risposta e quindi si rivolge a Google, perché l’articolo scompaia dalla ricerca. Qualunque cittadino Ue può fare questa richiesta direttamente al motore, anche se alcuni preferiscono avvalersi di un avvocato.
«Il problema è che i giornali ricevono decine di queste richieste al giorno e non riescono a gestirle con le proprie risorse», dice Blengino. Un esempio classico riguarda un medico, che è stato radiato molti anni fa per abusi su un paziente. È stato assolto poi in appello, ma su alcuni siti continua ad apparire solo la notizia della sentenza di primo grado. Oppure c’è la storia di un dirigente ministeriale accusato su un giornale di aver sottratto fondi pubblici in un ospedale. All’epoca dell’articolo era un sospetto con qualche fondamento; poi però il caso si è sgonfiato. Il dirigente, non riuscendo a farsi modificare l’articolo, ha denunciato il giornale per diffamazione. Nell’attesa di una sentenza, si è rivolto al motore. Caso emblematico che mostra come la scorciatoia Google può avere un impatto su alcuni principi alla base della democrazia: equivale, nella pratica, a bypassare la magistratura su un giudizio complicato, che deve contemperare diritto di cronaca (e di accesso alle informazioni) e privacy.
E ci sono anche casi più contorti, dov’è difficile stabilire anche se l’informazione è completa o corretta. Una donna e il presidente di un’autorità portuale si sono trovati citati su un articolo on line in merito a un giro di prostituzione che coinvolge politici in Puglia. Non sono accusati di nessun reato, ma vogliono che Google li dimentichi.
«Il diritto all’oblio è giusto. Prima di questa sentenza Google si è sempre rifiutato di rimuovere anche casi lampanti di violazione della privacy», sostiene Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto su Internet. C’è per esempio una psicologa perseguitata da un ex paziente, che ne racconta fatti personali e vita sessuale sul Web (su un blog ospitato su un server estero, dove la giustizia italiana ha difficoltà a intervenire). Oppure la storia di un prete, accusato da una community di aver utilizzato metodi poco ortodossi nel trattare con i tossicodipendenti, quando dieci anni prima lavorava in un centro di recupero.
Anche per vecchie condanne si può chiedere l’opportunità di un diritto all’oblio: come nel caso del giovane avvocato, per esempio. «Il dramma è quello di essere costretti a vivere ancorati a un passato o peggio esserne ricattati. Mentre ogni persona ha diritto a ricostruire la propria identità partendo dal presente», dice Nicola Strizzolo, sociologo all’università di Udine.
Applaude alla sentenza anche Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy: «Il merito è di avere richiamato la necessità di un bilanciamento tra diritto alla privacy e diritto a essere informati», dice.
Insomma, il Web aveva un problema: in nome della trasparenza, non riconosceva abbastanza l’importanza della privacy. Adesso c’è una svolta, che è segno di una nuova sensibilità. Sorta probabilmente in seguito allo scandalo sulle intercettazioni di massa. Il problema c’era; peccato però – notano in molti – che la soluzione indicata dalla Corte sia errata. Perché «ha individuato un punto errato di equilibrio tra i diversi diritti», secondo Eric Schmidt, amministratore delegato di Google. Oppure perché «non deve essere Google a decidere quando rimuovere oppure no. Decisione, tra l’altro, a cui il sito non può nemmeno opporsi», sostiene Guido Scorza, avvocato esperto del tema. Google stessa è in imbarazzo, tanto che ha predisposto un comitato di esperti per valutare quale sia l’approccio migliore.
È probabile quindi che sia solo il primo tempo di una lunga partita. A fare chiarezza- e a dare una guida a Google – potrà essere forse il legislatore europeo, con un nuovo regolamento privacy (ora in bozza), atteso nei prossimi mesi. Soro evidenzia che ora la palla è anche alle autorità nazionali, che dovranno soppesare diversi fattori per indicare l’equilibrio ottimale tra i diritti: «La natura dell’informazione (ad esempio, espressioni offensive), il suo carattere sensibile per la vita privata, l’interesse pubblico della notizia e il suo contesto».
«L’importante, per trovare una soluzione, è non vedere tutto questo come uno scontro tra diritti», dice Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford e membro del comitato avviato da Google. «La questione è come fare evolvere la società dell’informazione rispettando la privacy», dice Floridi. «Una sfida a cui possiamo dare risposta solo con la collaborazione e il dialogo di tutte le parti». Tenendo anche conto che la rimozione dal motore di ricerca non è di per sé una garanzia: come nel caso di Stan O’Neal, banchiere di Merryll Lynch che ha chiesto a Google di far rimuovere un post scritto nel 2007 dal blogger della Bbc Robert Peston. Quest’ultimo ha infatti denunciato il «tentativo di censura» e così i contenuti che il banchiere riteneva dannosi per la sua reputazione hanno avuto un rilancio mediatico infinitamente maggiore rispetto al vecchio articolo.