a scena è quasi carnevalesca: sembra di entrare in un territorio sospeso – non è una settimana nel calendario, certo, ma un sistema estetico con una presa fortissima sull’immaginario di Millennial e aspiranti tali – nel quale le regole tradizionali non si applicano, e in sostanza vale tutto perché l’autore della ricetta è un paladino indefesso del “liberi tutti”. Un ospite arriva con il parasole broccato e frangiato, sotto la pioggia, e non lo chiude mai. I tipi fenomenali, guccificati da testa a piedi, non si contano. Imperversa una eccentricità esibita e codificata. Si parla di Gucci, naturalmente, e del suo direttore creativo Alessandro Michele, che per lo show della collezione resort 2020 porta il popolo di baccanti, adepti e osservatori a Roma, laddove nasce tutto. Un giro in centro tra Largo Febo, piazza Navona e via del Governo Vecchio, rende in effetti l’estetica attuale del marchio, così deragliante e composita, perfettamente leggibile.
La situazione politica della città, e del paese, ammanta invece questa orgia frivola di una urgenza necessaria e libertaria, perché troppo oggi è a rischio. «Ho voluto glorificare le meraviglie permissive del mondo pagano, adesso che ci vogliono sottrarre tutto» dice Michele, chiosando a margine del calderone romanissimo di tuniche, toghe e pepli, di vesti aristocratiche e manti clericali, conditi da un rutilare di rimandi ai fantastici anni Settanta cittadini, libertini e disinibiti come oggi nemmeno si potrebbe sperare. È uno show Gucci da manuale, insomma, con l’usuale cast di magnifici reietti.
Il film politico di Michele
Fan sfegatato dell’antico con i superpoteri del gruppo Kering, Michele sceglie i Musei Capitolini come suggestivo teatro della sfilata, che si svolge al buio, nelle sale zeppe di busti e statue, con i modelli che incedono plumbei illuminati dalle torce fornite al pubblico. Notte al museo: una fantasia fanciullesca realizzata. La metafora carnevalesca torna di nuovo utile. Nella messa in scena, più che in passato, si avverte il senso della fabbricazione di un happening, ovvero la confezione che sovrasta l’autenticità degli inizi.
Le parole sono chiare. «Costruire questi spettacoli non è facile» confessa lo stilista, esausto a fine show, descrivendo i caratteri in passerella come «personaggi del mio film». Un film politico, o meglio condito da slogan politici come «my body my choice», che però segna uno stallo rispetto alle recenti evoluzioni brutaliste del marchio. Si torna al Gucci rutilante, quello che offre al pubblico distratto e famelico la semantica di una bohème tipizzata. Roma richiede questo, adesso, ma la formula è ormai troppo codificata. Romperla sarebbe una sana ribellione.